AMBIENTEPERSONE

AREE PROTETTE: CACCIA ALL’UOMO

In nome della conservazione, le aree protette crescono mentre la biodiversità diminuisce. Di Claudia Pomponi.

Sul nostro pianeta, circa due miliardi di ettari, oltre il doppio dell’area degli Stati Uniti d’America,  ricadono nella definizione di “aree protette”. Molti governi e diverse organizzazioni per la conservazione stanno facendo di tutto per raddoppiare questo numero, arrivando al 30% del pianeta.

Una buona notizia? Non proprio.

È difficile parlare di “aree protette”.  In generale, si tratta di porzioni di territorio ben delimitate destinate alla cosiddetta “conservazione” ambientale. Ne esistono di diversi tipi, ma il modello dominante (soprattutto in Africa e Asia) ha radici coloniali e razziste. Qui sono in vigore restrizioni circa la presenza e le attività dell’uomo e l’uso delle risorse. Non nascono tutte con l’intento di proteggere e conservare, quanto più per creare zone dove gli uomini, alcuni uomini, possano rilassarsi e cacciare.

Yellowstone – Foto di kalhh da Pixabay

Ti basti pensare che il più antico parco nazionale al mondo, quello dello Yellowstone, nasce come riserva di caccia per i colonizzatori bianchi.

Sebbene alcune permettono un uso sostenibile delle risorse, altre, quelle che applicano un modello definito “conservazione-fortezza”, hanno delle restrizioni così severe tanto da bandire, in ogni modo, la presenza dell’essere umano, o meglio, di alcuni esseri umani: i popoli indigeni e altre comunità locali.

Perché i popoli indigeni vengono cacciati dalle aree protette

 I popoli indigeni rappresentano circa il 6% dell’intera popolazione mondiale. Sono popoli che vivono da secoli in determinate aree del globo ricche di risorse e biodiversità quanto fortemente colpite dai cambiamenti climatici.

L’avanzamento delle aree protette ne minaccia la sopravvivenza perché, in nome della conservazione, gli indigeni vengono allontanati dalle loro terre natie.

Grazie a questo report, ne rintracciamo alcune motivazioni:

  • PATERNALISMO E RAZZISMO: alcuni governi hanno sfrattato i popoli indigeni nel tentativo di costringerli ad assimilarsi al resto delle società. Il pregiudizio dell’uomo “moderno” è quello di credere che gli indigeni aspirino a progredire verso la civilizzazione, adattando il loro modo di vivere a quello dei colonizzatori. Questo ostacola il riconoscimento e la comprensione dell’identità dei popoli e delle differenze socio-culturali.
  • TURISMO e CACCIA: il turismo, altamente redditizio, giustifica gli sfratti, secondo la convinzione che solo la flora e la fuana selvatica siano interessanti. In molte riserve inoltre è praticata la caccia da trofeo (uccisione di animali per piacere, esibizione e vanteria). Nella Tanzania settentrionale, con la scusa di creare un corridoio tra i parchi Serengeti e Maasai Mara, il popolo dei Masai è stato sfrattato dalle proprie terre che, successivamente, sono state affidate a una compagnia di safari di caccia. Un’azione simile si sta ripetendo, con la stessa violenza, nella zona di Loliondo.
  • CONTROLLO e SFRUTTAMENTO: Molti governi vogliono il controllo supremo sia dei territori sia delle popolazioni locali; in questo modo possono facilmente usufruire dei ricavi ottenuti dallo sfruttamento di risorse, rese inaccessibili proprio dalla presenza degli indigeni. Con la scusa di creare una miniera di creare la riserva Central Kalahari Game, i Boscimani in Botswana sono stati cacciati. Adesso, nella zona sorge una miniera di diamanti.
  • PROFITTI: con l’aumento della sensibilità ambientale, alle grandi multinazionali mondiali viene richiesto di abbattere le proprie emissioni. Una soluzione potrebbe essere data dalle NBS (“Soluzioni Basate sulla Natura” – Nature-Based Solutions), cioè meccanismi che permetterebbero  di “compensare” le proprie emissioni piantando alberi, ripristinando ecosistemi e preservando foreste. Questo baratto (pianto alcuni alberi per compensare le emissioni) avviene grazie ai cosiddetti “crediti di carbonio”, una moneta di scambio promossa da governi e associazioni conservazioniste la quale sottintende, appunto, l’aumento di aree protette dove poi poter intervenire.

L’importanza dei popoli indigeni per la biodiversità

L’80% della biodiversità terrestre si trova nei territori dei popoli nativi, e la stragrande maggioranza dei 200 luoghi a più alta biodiversità sono su terra indigena. Questi popoli dipendono dagli ecosistemi in cui vivono, sia a livello pratico che spirituale e culturale, e sono quindi fortemente motivati a proteggerlo.

Il tema dell’utilizzo delle risorse naturali è centrale nella gestione della terra. Nei secoli,  gli indigeni hanno sviluppato conoscenze e complessi sistemi sociali per amministrare la raccolta dell’ampia varietà di specie da cui dipendono, in modo da assicurarsi abbondanza e sicurezza nel tempo, e permettendo così una proliferazione di biodiversità.

Privato dei suoi veri custodi, l’ambiente diventa rapida preda di bracconaggio, sfruttamento eccessivo delle risorse e vittima di grandi incendi. Al loro posto, i nuovi venuti (allevatori, taglialegna, turisti ed estrattivisti), privi di quel legame ancestrale, dispongono di poche conoscenze e di tutt’altre mire.

È importante ricordare che non è soltanto l’ambiente a pagarne le conseguenze, ma anche i diritti umani e la diversità culturale.
Una volta tracciati i confini di un parco, le comunità si vedono negare improvvisamente l’accesso ai propri luoghi di culto e sepoltura, alle piante medicinali e, in generale, ai mezzi di sussistenza. Per sopravvivere sono costretti a svolgere lavori sottopagati proprio nelle terre che erano la loro casa. Alcuni si trovano a vivere di elemosina, sprofondano nella povertà e nelle sue conseguenze: cattive condizioni di salute, malnutrizione, alcolismo e malattie mentali. Relegati ai margini della società dominante, spesso la loro presenza è mal tollerata dai nuovi vicini, con cui emergono conflitti e tensioni sociali.

“Da quando siamo stati espulsi dalla nostra terra, la morte ci insegue. Quasi ogni giorno seppelliamo qualcuno. Il villaggio si sta svuotando. Ci stiamo avviando all’estinzione. Ora che tutti gli anziani sono morti, sta scomparendo anche la nostra cultura.”

Un uomo Batwa sfrattato dal Kahuzi-Biega National Park, Repubblica Democratica del Congo.

Le aree protette sono efficaci?

L’efficacia di un’area protetta è valutata attraverso diversi fattori; uno tra questo è la deforestazione.

Uno studio del 2019, effettuato su 12.000 aree protette in 152 paesi, ha dimostrato quanto la deforestazione evitata e la designazione di “aree protette” non siano sufficienti a garantire la protezione della biodiversità. Pensiamo alle foreste: tutte le zone al mondo vedono il loro numero ridursi, questo avviene anche nelle aree protette. Tuttavia nei territori sottratti agli indigeni e ai popoli locali, le stesse organizzazioni per la conservazione vendono concessioni per il taglio del legno. Questo dato però è strettamente collegato a quello che si trova intorno alle zone di protezione. Le aree protette circondante da zone disturbate danno prestazioni peggiori; quelle presenti nei paesi più sviluppati si sono dimostrate più efficaci.

aree protette
I Masai di Loliondo, in Tanzania © Fiore Longo/Survival International

Come riconosciuto dallo studio globale IPBES, le aree protette esistenti “non sono ancora gestite efficacemente ed equamente” mentre è necessario porre l’attenzione sulle terre indigene perché, come ormai dimostrano sempre più numerosi studi scientifici, questi popoli sono i migliori custodi dell’ambiente. Laddove i loro diritti territoriali sono riconosciuti e rispettati, i livelli di deforestazione e d’incendi incontrollati sono notevolmente inferiori anche a quelli nelle aree protette, e si hanno effetti di mitigazione dei cambiamenti climatici.

Inoltre ci sono altri elementi da tenere in considerazione: la pressione umana e l’agricoltura intensiva. Questi due fattori sono aumentati in quasi tutte le aree protette. La pressione umana, causata dalle attività di turismo di massa e altre attività estrattive sostenute e incoraggiate dalle grandi organizzazioni della conservazione, è cresciuta in maniera particolare in quelle aree con una pressione umana iniziale molto bassa

È importante perciò creare nuove soluzioni che si basino:

  • sui popoli indigeni e i loro diritti, i quali si dimostrano i migliori custodi della terra.
  • su obiettivi misurabili in tutti gli aspetti, corredati di dati multidisciplinari, che nascono da più elementi presi in considerazione

L’aumento delle aree protette, se non gestito nella più efficace della maniera, potrebbe essere deleterio e non qualitativamente efficace.

Cosa dice la Legge

indigeni
I Jenu Kuruba protestano contro il Dipartimento alle Foreste di Nagarhole, in India, per dire “smettete di violare i nostri diritti”. © Survival International

Grazie all’esistenza della Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici, sappiamo che sono tanti i diritti umani violati durante la creazione di alcune tipologie di aree protette: quello sull’autodeterminazione, sull’essere privati dei mezzi di sussistenza, o quello riguardo la libertà di religione.

Secondo la legge internazionale, prima di poter avviare qualsiasi tipo di progetto sulle loro terre, è necessario avere il consenso previo, libero e informato (FPIC) dei popoli indigeni. Ma le grandi organizzazioni per la conservazione non hanno mai davvero cercato di ottenere questo consenso. Violando la legge internazionale, le aree protette e i progetti di conservazione sono illegali.

L’auspicabile divenire delle aree protette

Gli obiettivi delle aree protette dovrebbero essere solo due: proteggere l’ambiente e salvaguardare la biodiversità, al cui interno vi è anche l’uomo e le sue culture. I popoli indigeni sono i migliori custodi della natura, è a loro che occorre rivolgersi per trovare un accordo che li veda protagonisti indiscussi, e riconosca il loro valore e la loro esperienza.

Una donna baka racconta le preoccupazioni per il futuro del suo popolo. I Baka stanno per essere derubati delle foreste che abitano e proteggono da generazioni.

Uno strumento utile da usare è il “Codice Bennet”, un codice di condotta creato dall’avvocato Gordon Bennet (il difensore legale durante lo storico processo tra i Boscimani e il governo del Botswana). Questo è destinato alle organizzazioni che si occupano di conservazione della biodiversità, e permette di aprire un dialogo equo e imparziale tra le varie fazioni. È un accordo fondamentale per la sicurezza dell’ambiente e dei popoli indigeni, il quale, al tempo stesso, mostra la credibilità e l’impegno di quelle organizzazioni firmatarie.

Unirsi alla voce dei popoli indigeni

Individualmente possiamo fare molto:

  • Sensibilizzare sull’argomento e fare pressione mediatica. (Qui un ottimo report)
  • Informarsi e sostenere, con donazioni o associandosi, le organizzazioni che da anni si battono per i popoli indigeni, come Survival International.
  • Firmare le petizioni, inviare e-mail per fare pressione ai decisori politici, partecipare a campagne (qui puoi trovarne molte).
  • Amplificare le voci dei popoli indigeni.
  • Evitare di partecipare a safari o visite turistiche in quelle zone che sono state rubate ai popoli indigeni.
  • Cercare di andare oltre i meccanismi coloniali di cui la nostra cultura è impregnata.
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Donna Baka, Bacino del Congo ©Survival International

Un ringraziamento particolare a Survival Italia per le informazioni, l’aiuto e la disponibilità che mi hanno fornito per la stesura di questo articolo.


Claudia Pomponi
Milano, 14/10/2022

Un pensiero su “AREE PROTETTE: CACCIA ALL’UOMO

  • Federico

    Questo articolo è Veramente uno squarcio sereno in un cielo nuvoloso!

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