ASSOCIAZIONI

Scozia e Islanda. Gli inferni sommersi degli allevamenti di salmone

L’inferno sommerso degli allevamenti di salmone tra sofferenza animale e disastro ecologico

Tante sono le verità che vengono a galla sugli allevamenti intensivi e nei gironi infernali ci sono anche i salmoni scozzesi e non, tema affrontato più volte e oggetto di tante inchieste e articoli.

Gravi sono le condizioni degli allevamenti di salmoni in Scozia, girano immagini di pesci con code amputate e occhi esplosi o mangiati vivi dai pidocchi. Pare che malattie, riscaldamento delle acque e parassiti portino alla morte il 25% dei salmoni prima di arrivare al macello.

Sofisticati sistemi di sorveglianza per monitorare il comportamento dei pesci, renderebbero gli allevamenti sotto inchiesta “tecnologicamente avanzati”, secondo alcuni parlamentari scozzesi, ma le associazioni animaliste sono di parere ben diverso.

Abigail Penny, direttrice esecutiva di Animal Equality UK, ha denunciato condizioni di vita incompatibili con ogni forma di benessere animale.


Tenendo sotto controllo a 360 gradi i danni da “allevamenti intensivi”, anche nel caso di questi inferni sott’acqua le ricadute non si limitano agli animali. Bisogna infatti tener presente l’impatto ambientale dell’industria del salmone.

Essendo la Scozia il terzo produttore mondiale di salmone atlantico da allevamento, con esportazioni in oltre 50 Paesi, tra cui l’Italia, come non immaginare quanto le sostanze chimiche, impiegate per combattere i parassiti e i residui di mangime, che si depositano sui fondali, danneggino in modo irreversibile gli ecosistemi marini.

Nonostante le ripetute denunce delle associazioni animaliste, le problematiche sembrano purtroppo immutate nel tempo: pesci costretti a vivere per due anni in gabbie sottomarine sovraffollate, con tassi di mortalità che possono arrivare fino al 25%.

Non solo la Scozia

Questo quadro critico trova un analogo riscontro anche in Islanda, dove tra novembre 2024 e febbraio 2025 quasi 1,2 milioni di salmoni sono morti negli allevamenti a rete aperta di Kaldvík, trasformando una filiera in espansione in uno dei casi più gravi nella storia recente dell’acquacoltura europea.

Alcuni operatori e attivisti hanno filmato reti colme e migliaia di cadaveri galleggianti ed hanno fatto partire una denuncia. Le ispezioni condotte dall’Autorità islandese per la sicurezza alimentare e veterinaria hanno confermato l’orrore rilevando sovraffollamento estremo, condizioni di trasporto insostenibili e acque marine con livelli di ossigeno insufficienti, tanto che la polizia ha avviato un’indagine per negligenza e maltrattamento animale.

Il disastro ha scatenato un’ondata di indignazione pubblica e una causa legale senza precedenti: i proprietari dei fiumi, sostenuti dall’Icelandic Wildlife Fund e finanziati anche dall’artista Björk, hanno chiesto l’annullamento delle autorizzazioni per gli allevamenti nei fiordi islandesi, denunciando, peraltro, il rischio di contaminazione genetica del salmone selvatico.

Le frequenti fughe degli animali dalle gabbie in mare aperto, infatti, minacciano l’integrità genetica di popolazioni adattate da millenni. In poche parole il rischio è che l’acquacoltura intensiva, tra cambiamento climatico e inquinamento, trasformi una specie selvatica in un ibrido fragile.

Opposizioni

In questi impianti più di quattro milioni di pesci sono morti nell’ultimo anno, cifra 72 volte superiore al numero totale di salmoni selvatici ancora presenti nel Paese. Inquietante!

Il problema è molto sentito a livello sociale, infatti, secondo un sondaggio Gallup, oltre il 65% degli islandesi è contrario agli allevamenti in mare e quasi il 60% ne chiede il divieto assoluto.
La pressione internazionale ha inoltre contribuito ad accendere il dibattito politico. Il Parlamento islandese discuterà entro fine anno una riforma della legge sull’acquacoltura, che punta a introdurre limiti più severi alla densità di carico, il monitoraggio continuo della qualità dell’acqua e il passaggio a impianti a terra o sistemi chiusi.

Riflessioni e conclusioni

Alla luce di tutte queste evidenze, ci chiediamo come non venga spontaneo ai consumatori di salmone, e pesce in generale, se sia davvero necessario continuare a nutrirsi di queste creature.

Per noi la risposta è palese ed è NO.

I nutrienti per cui il pesce è noto – Omega-3, vitamina D, iodio e proteine – sono disponibili anche in fonti vegetali: alghe, semi di lino, noci, legumi, verdure a foglia verde e integratori 100% vegetali.
Inoltre, per chi proprio non riesce a rinunciare al gusto, il mercato offre oggi ottimi sostituti a base vegetale che replicano sapore e consistenza del salmone affumicato e non, senza dover sfruttare animali e risorse e senza infliggere sofferenza gratuita ed inutile.

Più che regolamentare meglio la “produzione” di salmone, è tempo che tutti inizino a ripensare radicalmente il rapporto con l’alimentazione e gli animali.

Le alternative esistono, sono sostenibili, etiche e gustose. L’auspicio, dunque, non può e non deve essere quello di migliorare le condizioni negli allevamenti, ma di superarli del tutto.

Milano, 24/06/2025 – Miguel Angel Beso

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